Il 2 giugno del 1946 e la strage degli scugnizzi di Via Medina

02-06-2025 17:20 -

Il 2 e 3 giugno del 1946 agli italiani sono consegnate due schede, una con la quale sono chiamati a eleggere l’Assemblea costituente che ha il compito di scrivere la Costituzione e l’altra è un referendum per scegliere tra monarchia e repubblica. Per la prima volta partecipano al voto anche le donne completando così il suffragio universale inaugurato in Italia nel 1912 quando al voto accedevano tutti gli uomini di almeno 30 anni oppure anche più giovani se in regola con il servizio militare. L’Italia è appena uscita dal disastro della seconda guerra mondiale con un paese ridotto in macerie e una sovranità limitata perché le forze alleate hanno occupato militarmente lo stivale. A trascinare il Paese nel baratro Mussolini che non è stato limitato dal re Vittorio Emanuele III. Anzi, negli anni del consenso i Savoia apparivano consenzienti ed applaudenti. Le forze antifasciste italiane impegnate, soprattutto al settentrione, nella lotta partigiana decidono di rinviare la scelta istituzionale dopo la definitiva sconfitta del nazifascismo. La scelta è affidata al popolo al quale è consegnata una scheda referendaria unica nel suo genere.

Le due opzioni piuttosto che essere indicate da un motto o da una scritta sono rappresentate con un disegno così da rendere semplice è accessibile a tutti il voto. Sullo stesso sfondo dello stivale peninsulare, da una parte l’Italia turrita cinta d’alloro che rappresenta la repubblica, dall’altro lo stemma sabaudo sormontato dalla corona che indica la monarchia. Gli analfabeti sono circa il 12 per cento della popolazione, numero che aumenta tra le donne e nelle zone di provincia. In Italia i militari alleati in alcune zone designano sindaci e prefetti e garantiscono l’ordine pubblico, è in carica un governo sostenuto dai principali partiti della lotta di resistenza presieduto da De Gasperi.

Tra gli alleati la Gran Bretagna che, anche per una lunga tradizione inglese, strizza l’occhio alla monarchia. Gli americani che ambiscono ad un patronato sulla politica italiana soprattutto per imporre l’imminente patto militare (denominato atlantico) sono invece per la repubblica concepita come forma istituzionale più aderente alla democrazia di cui si ergono a difensori e di cui pensano di essere i principali interpreti, ma contrastano le forze socialcomuniste legate a Mosca. La Chiesa è invece per la monarchia, vista come garanzia di un passaggio graduale dal regime alla democrazia e per il timore che la vittoria netta della repubblica possa essere il viatico per una affermazione dei socialcomunisti dal momento che le sinistre sono le forze politiche che con maggior impeto sostengono la causa repubblicana. Buona parte del mondo ecclesiastico sostiene così la monarchia ma, paradossalmente, lo fa anche Benedetto Croce, liberale e anticlericale, che spiega la scelta con il singolare motivo che serve a contrastare il Vaticano, un discorso ampio che parte dal fatto che i Savoia hanno tolto il potere temporale ai papi e che cancellato il re dall’Italia l’unica corona di Roma rimane la tiara dei tre regni sulla testa del papa.

Pio XII ha simpatia per Umberto, il “re di maggio”, non è ostile alla repubblica, ma comprende e non ostacola il ragionamento di fondo delle gerarchie ecclesiastiche. Così quando don Luigi Sturzo, esiliato da Mussolini nel 1924, dagli USA, con la valigia pronta per il ritorno in patria dopo vent’anni, si pronuncia per la repubblica è il Vaticano a ritardarne il ritorno in patria perché non vuole partecipi alla campagna elettorale. Nella Democrazia Cristiana, neonato partito unico dei cattolici, le cose sono più complesse. All’inizio la questione istituzionale sembra affidata all’Assemblea costituente: la maggioranza elettorale avrebbe scelto il destino del Paese. Alcide De Gasperi, invece, non senza lungimiranza, ha imposto anche alle forze socialcomuniste la consultazione referendaria avvertendo che nei partiti politici si possono creare posizioni interne diverse. Il discorso vale in primis per la Democrazia Cristiana dove numerosi esponenti, tra questi i principali leader del Mezzogiorno (Leone, Gava, Mattarella), sono per la monarchia, senza trascurare l’influenza vaticana pro monarchia. Molte spinte convergenti, insomma, sono a favore della continuità istituzionale contro quello che i monarchici definiscono il “salto nel buio” e la Democrazia Cristiana decide di non schierarsi e di lasciare libertà di coscienza, non senza contestazioni interne. Quando De Gasperi dichiara la neutralità del partito Giuseppe Dossetti che è il vicesegretario si dimette con un documento pubblico secondo il quale la scelta di De Gasperi di non schierare il partito favorisca la monarchia.

Le operazioni di voto del 2 e 3 giugno si tengono nella massima calma. Ma il clima delle settimane precedenti è stato, per dirla con il socialista Pietro Nenni: “O la repubblica o il caos”. Il ministro comunista delle Finanze, Mauro Scoccimarro, parlando a Frascati minaccia la rivoluzione in caso di vittoria monarchica al referendum. Sandro Pertini chiede la fucilazione del Luogotenente Umberto di Savoia. In molti benpensanti per evirare il caos mettono in conto di votare repubblica, stanchi di guerre civili e violenze.



Alla fine la vittoria della repubblica, con 12.718.641 voti a favore contro 10.718.502 per la monarchia pone fine alla contesa elettorale, ma non alle polemiche. Su circa 35 mila sezioni elettorali, sono presentati 21 mila ricorsi, tra questi si segnalano casi di elettori che hanno votato due volte o di schede elettorali consegnati a defunti.

Non tutti gli italiani hanno avuto diritto al voto. I militari prigionieri di guerra nei campi degli alleati e gli internati in Germania non hanno fatto in tempo a ritornare. Non si è votato nella provincia di Bolzano, che dopo la creazione della Repubblica di Salò è annessa alla Germania e che dopo la fine della guerra è sotto governo diretto degli alleati. Non si vota neppure a Trieste, divisa in due e sottoposta ad amministrazione militare internazionale. Allo stesso modo gli italiani residenti in Libia, principalmente a Tripoli, non hanno votato. La principale contestazione di natura giuridica trae origine da una formulazione non proprio chiara della legge istitutiva del referendum.

Un gruppo autorevole di giuristi presenta un ricorso che è firmato dal docente universitario Giuseppe Selvaggi sul problema del quorum. Il governo non ha comunicato in anticipo il numero degli aventi diritto al voto. Il referendum per essere valido deve prevedere un risultato pari alla maggioranza dei votanti cioè - secondo i monarchici - tutti gli aventi diritto, compresi quindi i prigionieri, gli internati e i cittadini della provincia di Bolzano (solo quest’ultimi sono 350 mila), di Trieste e delle colonie. Secondo questo orientamento non basta che la repubblica prevalga sulla monarchia per cambiare l’assetto istituzionale. Giuseppe Pagano, primo presidente della Corte di Cassazione, al momento di dare lettura dei risultati utilizza una formula dubitativa che lascia spazio a recriminazioni e di riserva di decidere nel termine (15 giorni) assegnato dalla legge per le contestazioni. Spirato il termine, la Corte di Cassazione adotta a maggioranza, dodici voti contro sette, una interpretazione contraria a quella contenuta nel ricorso Selvaggi e nelle conclusioni del Procuratore Generale Massimo Pilotti chiarendo che “per maggioranza degli elettori votanti di deve intendere la maggioranza degli elettori che hanno espresso voti validi”.

Il Paese è spaccato in due, da Roma in giù ha prevalso la monarchia. A Roma di poco, ma nel Mezzogiorno il risultato è importante. Nel collegio elettorale di Napoli e Caserta, per esempio, la percentuale è vicina al 79 per cento. Sono si tratta solo di una tradizione figlia di arretratezza socio economica, come sottolineano alcuni studiosi, ma è il timore di una destabilizzazione della società meridionale che vede nell’aristocrazia, a cui spesso ha consegnato ampi poteri, un ruolo di guida del territorio che è rimasto con le leggi del feudalesimo e le relative imposizioni sino al 1806 senza parlare del monopolio delle terre coltivabili che nel Meridione sono in mano ai baroni.

Le contestazioni e le incertezze sul risultato sono avvertite con particolare fermento a Napoli, la città che si è espressa all’80 per cento per la monarchia. Per controllare la piazza napoletana il governo, nella persona del ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, invia numerosi reparti di polizia ausiliaria. Questi reparti, alle dirette dipendenze dello stesso ministro, sono formati per la maggior parte da ex partigiani comunisti del nord. Da qui l’appellativo di “guardie rosse di Romita”.

Il sangue a Napoli incomincia a scorrere la sera del 6 giugno 1946, quando uno sconosciuto lancia una bomba a mano, vicino la chiesa di Sant’Antonio a Capodimonte, contro un numeroso gruppo di giovani, reduci da una dimostrazione monarchica. Sono ferite otto persone. La mattina del 7 giugno, a Napoli si diffonde la notizia dell’arrivo di Umberto. Il re ha deciso di battersi per il suo buon diritto e ha scelto la città come suo quartiere generale visti i risultati elettorali. Come sempre accade a Napoli, è un’esplosione di gioia popolare. Tutti i monarchici napoletani sono in piazza. Bisogna accogliere degnamente il sovrano. Si forma un imponente corteo che, accompagnato dalle note solenni della “Marcia Reale” suonata da un’improvvisata banda musicale, avanza lungo Corso Umberto I, diretto a Palazzo Reale in piazza del Plebiscito, ove si pensa che sia il Re. Il corteo si ricongiunge con un grosso concentramento degli universitari e studenti medi che si sono radunati presso il rettorato della Federico II, davanti all’ingresso con le due sfingi.

A Piazza Nicola Amore, i quattro palazzi, c’è uno sbarramento di camionette degli “ausiliari di Romita”. Alla testa del corteo, un giovane scugnizzo di 14 anni, Carlo Russo, che indossa un grande tricolore con lo stemma sabaudo. Non ha armi. Vuole passare. Avanza deciso. I mitra dei militari sparano ad altezza d’uomo. Si contano molti feriti. Uno dei primi a cadere è Carlo Russo. Con la fronte squarciata, cade avvolto nel tricolore sabaudo, che diventa il suo sudario. Solo il deciso intervento dei Reali Carabinieri permette poi agli ausiliari di sfuggire al linciaggio della folla inferocita. Carlo Russo muore, dopo un’atroce agonia, due giorni dopo. L’8 giugno muore lo studente Gaetano D’Alessandro, di 16 anni. Il ragazzo sta tornando a casa dopo una manifestazione monarchica di protesta per le violenze del giorno prima. Ha alle spalle un grande tricolore con lo stemma sabaudo. Nei pressi di Piazza dei Vergini, è fermato da una camionetta. Gli intimano di consegnare la bandiera. Il ragazzo sfugge ai poliziotti e si arrampica sul cancello di una vicina chiesa, sventolando la bandiera e gridando a squarciagola: “Viva il Re!” Alle grida accorre numerosa la popolazione, che subito circonda minacciosa la camionetta. I celerini devono abbandonare il campo subissati di fischi e pernacchie provenienti da una schiera di giovanissimi scugnizzi. Un militare, rabbioso, uno degli ausiliari del nord però vuole vendicarsi. Con fredda determinazione spara una raffica di mitra e uccide il ragazzo ancora aggrappato al cancello. Anche in questo caso nel cadere il corpo si avvolge di quel tricolore con lo stemma sabauda che ha difeso con la vita.

L’11 giugno dal balcone della Federazione del PCI di Via Medina, accanto alla consueta bandiera rossa con falce e martello, è esposta una strana bandiera tricolore. Si vede l’effigie di una testa di donna turrita nel campo bianco al posto del tradizionale stemma sabaudo. Per Napoli, che ha votato per l’80% monarchia, è una provocazione. Fulminea si sparge la notizia per la città. A migliaia si dirigono in Via Medina. Si tratta di giovani e giovanissimi. In molti hanno partecipato con coraggio nel 1943 alle cosiddette “quattro giornate “contro l’occupazione tedesca. Qualcuno si arma delle stesse armi di allora: pietre e fionde. In Via Medina per fronteggiare la folla arrivano decine di blindati e celerini in assetto di guerra. La sede comunista è difesa da militanti armati, in minoranza non solo nel risultato elettorale. I primi gruppi di dimostranti appena arrivati rovesciano i tram per formare delle barricate e rendere difficoltosi gli assalti della Celere. Poi un giovane marinaio di leva, Mario Fioretti, aggrappandosi ai tubi e alle sporgenze inizia a scalare il palazzo della federazione per arrivare al 2° piano e asportare la bandiera. Sembra quasi giunto al drappo conteso, va per allungare la mano verso il drappo, e da una finestra della federazione comunista spunta un braccio armato di pistola che a bruciapelo spara sul giovane marinaio. Mario Fioretti stramazza cadavere sul selciato, mentre dai presenti si levano urla d’orrore e di rabbia. Altri giovani, per nulla spaventati dalla morte del loro coetaneo, cominciano anch’essi la scalata verso quel balcone. Un gruppo di dimostranti cerca di guadagnare le scale per salire al piano superiore. Dalla caserma di polizia, posta quasi di fronte al palazzo assediato, sparano per uccidere. Cadono uno dopo l’altro e si sfracellano a terra: Guido Bennati, Michele Pappalardo, Felice Chirico. Michele Pappalardo ha in programma di sposarsi l’indomani, ha detto alla madre che lo incita a restare a casa: “Mammà piglio ‘a bandiera e po’ torno…” A questo punto in Via Medina è l’inferno. I feriti si contano a decine. Muore in un lago di sangue, sempre colpito da pallottole, l’operaio monarchico Francesco D’Azzo. Quando le autoblindate della Celere hanno ragione delle rudimentali barricate, a terra si rinviene anche il corpo della studentessa Ida Cavalieri che ha fatto barriera col proprio corpo inerme alle auto dei militari, che incuranti l’hanno investita e uccisa.

Un appartenente alla Regia Marina, Vincenzo Guida cerca di innalzare una grande bandiera sabauda su di un palo. È colpito alla nuca da un colpo di un cecchino. Quando la strage è finita arriva la polizia militare americana che, insieme ai Reali Carabinieri, a stento riesce a sottrarre i celerini e gli attivisti comunisti alla collera popolare. Alla fine della tragica giornata di sangue, si contano, oltre i morti circa 50 feriti gravi. Tra questi ultimi, tutti colpiti da armi da fuoco, Gerardo Bianchi di 15 anni, Alberto De Rosa di 17, Gianni Di Stasio di 14, Antonio Mariano di 12, Giovanni Vibrano di 11, Raffaele Palmisano di 10 e Tino Zelata di 8. Gli altri feriti hanno in media 20-30 anni.

Questa storia tutta napoletana sono in pochi e ricordarla e a raccontarla, sono vittime giovanissime della violenza politica, ma finiscono nell'oblio delle celebrazioni del 2 giugno.

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